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Per guardare la vita dall'alto

e vedere il mondo con gli occhi di Dio

COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 15, 9-11


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.

Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».

 

Il brano di oggi è il seguito del discorso di Gesù sulla vite e i tralci. La vite è Lui e noi siamo i tralci che Dio pota perché portino più frutto.

A proposito di questa saggia potatura di Dio che interviene nella nostra vita con la forza tagliente della Sua Parola, ieri vi dicevo che ogni potatura è sempre dolorosa perché è un taglio nel vivo che può far male e, a primo acchito, può apparire come un’operazione chirurgica invasiva, eccessiva e addirittura inopportuna.


Però mentre ferisce risana. Chi si sottopone a un intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore sa bene quanto sia importante che ogni cellula tumorale venga eliminata, costi quel che costi. E poco importa se bisogna affondare il bisturi e raschiare tutto fino a raggiungere la parte sana dell’organo malato. Lo si fa e basta perché ne va della vita. E alla fine dà anche gioia per la salute ritrovata.


È quello che intende dire Gesù oggi dopo aver spiegato a lungo ai suoi discepoli come Dio agisce nella nostra vita e come si prende cura di noi: Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Che nella Lettera agli Ebrei viene poi ribadito e approfondito in questi termini: “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? […] Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.” (Eb 12,7.11).


Già nel Libro dei Proverbi l’autore sacro aveva scritto che Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (3,12) e ci aveva raccomandato di “non aver a noia la sua correzione”, intuendo con saggezza che questi interventi di Dio, “più preziosi dell’oro”, apportano “tanta pace”.


È bello pensare a tutto questo: il frutto maturo della potatura di Dio è la gioia accompagnata da tanta pace.

  • Gioia e pace perché finalmente ti sei liberata/o di ciò che in te era ormai secco e sterile.

  • Gioia e pace perché i rami deboli della tua vita che ti succhiavano tante energie senza darti alcuna prospettiva di bene, sono stati recisi e i frutti modesti che prima riuscivi a fatica ad ottenere ora possono diventare finalmente grappoli turgidi d’uva buona.

Uva versata nei tini, dentro cui alla fine puoi danzare e saltare di gioia, come un tempo facevano le donne durante la vendemmia, per spremere il mosto e lasciare che fermenti nella botte della vita.


Forse, a questo punto, due domande possono aiutarci a far sì che questa potatura benedetta ci raggiunga presto e bene:

Quali sono i miei rami secchi da potare? E quelli deboli?

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 15, 1-8


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

«Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

Gesù si era definitivo “la luce”, “la via”, “la verità”, “la vita”, “il pane”. Ora dice di sé: “Io sono la vite”.

L’immagine della vite e della vigna aveva un grande valore simbolico. I profeti l’avevano usata per raccontare il rapporto tra Dio e Israele e dunque era molto a cara al popolo. Già dopo il diluvio era stata richiamata come segno di vita nuova; poi come primo frutto trovato nella terra promessa; e infine era diventata metafora della Sapienza e della sposa feconda che vive nell’intimità della casa.


Ora Gesù dice: di questa vigna che ha molti ceppi io sono la vite, “quella vera”, non una qualunque, ma quella autentica, fedele e feconda, e il Padre mio, come ogni buon contadino della Palestina, è colui che se ne prende cura perché porti frutto.


Naturalmente, in lui, noi siamo i tralci. Sappiamo bene che in inverno i tralci secchi vengono recisi e in primavera si potano i nuovi getti, i più deboli, per evitare che sottraggano linfa alla vite. Ma sia nell’uno che nell’altro caso c’è un unico obiettivo: che porti frutto, che porti più frutto.


Certo, ogni potatura, nella nostra vita, è sempre dolorosa: purifica sì, ma è un taglio nel vivo che può far male e, a primo acchito, può sembrare ingiusto e incomprensibile. Ma ha una sua logica, ed è per la vita, non per la morte. Soprattutto manifesta la premura con cui Dio si prende cura di noi. Non a caso quando potiamo le viti a primavera, a ogni taglio esce una lacrima e i vecchi dicono che la vite piange perché finalmente “si è mossa” e la linfa – la vita! – comincia a scorrere nel tralcio.


Sbagliamo però se pensiamo che i rami secchi della vite siano coloro che, agli occhi di Dio, si comportano male e siano, per dirlo con una sola parola, i “cattivi”, in contrapposizione ai “buoni” che invece portano molto frutto.

Il ramo secco è piuttosto tutto ciò che noi, in tutti, è miseria, infedeltà, debolezza, peccato. Dio non recide nessuno dei suoi figli, anzi è venuto proprio per i più deboli, i tralci “malati”, ma interviene nel vivo dei loro atteggiamenti inautentici, che non portano frutto, e pota, come sa fare Lui, con perfezione chirurgica e infinita pazienza.


Badate, però: è Lui che deve potare, non noi. Ricordiamocelo!

Se lo facciamo noi, e di solito lo facciamo con l’intento di potare i rami secchi degli altri e non i nostri, siamo come coloro che, con presunzione e ipocrisia, vogliono togliere la pagliuzza dall’occhio dell’altro mentre nel loro occhio c’è una trave spessa e inamovibile, che fuor di metafora significa che sono sempre pronti a guardare e giudicare i difetti degli altri mentre sono molto indulgenti con il male più grande che impedisce loro la vista.


Lasciamo dunque che la Parola di Dio ci poti a dovere.

E fidiamoci di Lui: non è forse detto che questa Parola “è più tagliente di una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giuntura e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12)?

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 14,27-31a


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: "Vado e tornerò da voi". Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.

Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il prìncipe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco».

 

Vi avevo accennato ai tre discorsi d’addio di Gesù: li abbiamo meditati in questi giorni con grande commozione e gratitudine.

Gesù ha rincuorato i suoi discepoli assicurando loro che non li abbandonerà. Anzi tornerà e si fermerà a vivere con loro, in modo nuovo, certo, ma altrettanto efficace e denso di consolazione grazie all’azione dello Spirito Paràclito che starà dalla loro parte insegnando e ricordando che Dio è amore. Amore che salva.


Oggi ascoltiamo le battute conclusive del suo ultimo discorso d’addio. Prima di accomiatarsi dai suoi, Gesù lascia loro in dono la sua pace – lo shālôm – che è ben più del saluto augurale e affettuoso, ma anche convenzionale, che ci si scambiava in Israele arrivando e partendo da casa.

La pace di cui parla Gesù è l’insieme dei beni che solo Dio può donare e dà fiato a un benessere che scaturisce dalla consapevolezza di essere stato raggiunti dalla sua Parola e avvolti dalla sua misericordia.

Offrendoci la pace, Gesù ci dà tutto di sé ma ci chiede anche qualcosa: avere un cuore ben disposto a fidarsi di Lui, del suo essere in mezzo a noi sempre, nel mondo e nella storia.


Sentire lo shālôm qui, alla vigilia della sua passione, non è un semplice incoraggiamento rivolto ai discepoli, ma un’eredità, che appartiene anche a noi. Eredità da tirar fuori soprattutto nel tempo della prova e della tribolazione per coltivare con fiducia la certezza della sua vittoria sul male.


Capite bene ora perché Gesù dica: “vi do la mia pace”. ‘La sua’, non quella fragile e inconsistente che scaturisce dai negoziati e dai compromessi degli uomini. Questi durano finché c’è una convenienza da sfruttare e vanno in fumo appena la prospettiva di una guerra lascia intravedere conquiste e interessi più grandi. No, non è quella la pace vera donata da Gesù. Quella purtroppo è solo una pace di plastica che cammina a braccetto con la tracotanza dei potenti, gli interessi di pochi e il dolore, l’oppressione e lo sfruttamento della povera gente.


Non possiamo allora che unirci ai 40 appelli lanciati da papa Francesco e alla sua preghiera perché si ponga fine alla guerra in Ucraina e in tutti quei covi di violenza che stanno trasformando la nostra terra in un campo minato: “Per favore, fermatevi. Si imbocchi la via del dialogo e della pace!”.


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