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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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Come reagiamo con chi la pensa in modo diverso da noi: gettiamo ponti di reciproco ascolto o erigiamo muri di spietato dissenso?


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 11,16-19


In quel tempo, Gesù disse alle folle:

«A chi posso paragonare questa generazione? È simile a bambini che stanno seduti in piazza e, rivolti ai compagni, gridano:

"Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!".

È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: È indemoniato. È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori.

Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie»

 

Diciamola tutta: criticare l’austerità di Giovanni e, nello stesso tempo, puntare il dito contro la gioia conviviale di Gesù era solo una maschera meschina per non ammettere che ci si stava rifiutando di stare al gioco di Dio.

Accadde allora e accade anche oggi.

Avessimo almeno il coraggio di dire: “Non voglio giocare!”. E invece no.

Come bambini capricciosi facciamo perennemente il bastian contrario. Ci crediamo tutti d’un pezzo, integerrimi, quasi perfetti, e con sufficienza ci sentiamo in diritto, anzi in dovere, di criticare per partito preso tutto e tutti, sbuffando apertamente e seminando scontento. Ma intanto – ed ecco l’incoerenza! - ce ne stiamo in panchina, accigliati, con il muso lungo e a braccia conserte. Se interveniamo è solo per dire tra i denti (o urlare!) il nostro disaccordo e, come diceva Gesù, finiamo per diventare come quei farisei ipocriti che “legano dei fardelli pesanti e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito” (23,4).

Ripeto, avessimo almeno il coraggio di dire: “Non voglio giocare!”, mi rifiuto di accogliere la logica del Vangelo. E invece no. Ci piace vivacchiare all’ombra del campanile ed essere ascritti tra i discepoli del Signore, ma a una certa distanza, per poter continuare a fare i nostri comodi, senza dipendere da nessuno, chiusi nella nostra gabbia dorata, impegnati a proteggere l’ego smisurato che abbiamo via via coltivato illudendoci di essere migliori degli altri. E finiamo per inscenare la danza di Narciso al suono dell’unico flauto che ci piace ascoltare: il nostro!

Sembrerà eccessivo quanto vi dico, quasi caricaturale, ma troppe volte ho visto tanti ‘buoni cristiani’ – me compresa – entrare in gioco con convinzioni pregiudiziali e addirittura servirsi del Vangelo per giudicare gli altri e lamentarsi di tutto, quasi per abitudine, addirittura per una sorta di diritto acquisito in nome di una presunta superiorità morale.


Stringi stringi – ed è qui che dovremmo dire e fare mea culpa! - ciò che veramente fatichiamo ad accettare non sono tanto le regole del gioco, ma che queste regole non siamo noi a dettarle. E se pestiamo i piedi è perché, con una sorta di presunzione e immaturità latente, almeno nella fede, crediamo che il nostro pensiero sia in linea con quello di Dio, magari il più vicino al suo. È questa arroganza che ci rende dispotici e indisponibili a cercare con gli altri ciò che Dio vuole.


Una domanda, solo una, vorrei gettare come pietra nel cuore, nel mio e nel vostro: come reagiamo con chi la pensa in modo diverso da noi: gettiamo ponti di reciproco ascolto o erigiamo muri di spietato dissenso?



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Maria l'ha fatto: tocca a noi ora coltivare uno sguardo vigile, pronto ad assecondare Dio ed essere immediati nell’accoglienza amorosa dei suoi progetti, per piacere a Lui e con Lui rimpastare il mondo, in gioia e gratuità!


Dal Vangelo secondo Luca

Lc 1, 26-38

In quel tempo, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.

Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

E l'angelo si allontanò da lei.

 

Confermata nella grazia e preservata dal peccato: questo è l’annuncio della festa dell’Immacolata Concezione di Maria. Un privilegio unico che – a primo acchito – rischia di renderla tanto lontana da noi.

Abbiamo bisogno del testo biblico per intrecciare il dogma con l’esperienza di questa giovane donna e recuperare quella “vicinanza” dentro la quale possiamo leggere anche la nostra vita. E soprattutto credere e sperare che se Maria si è inserita totalmente nel disegno di Dio possiamo farlo anche noi perché le sue perplessità sono anche le nostre così come le sue fatiche, il procedere in salita nella fede, gli interrogativi, le tentazioni, i nodi da sciogliere.

Vicina a noi, dunque. A partire dall’anonimato del villaggio che le ha dato i natali. Ed è da qui che partiamo.


Nazareth era un villaggio periferico, schivato dai ricchi e dai potenti e abitato per lo più da un pugno di contadini e artigiani che vivevano alla giornata. Qui localizziamo l’entrata di Dio nella storia e nella vita di Maria.


“L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa…”

Qui, nel cuore puro di una vergine, Dio pone la sua tenda, qui, a Nazareth, nel grembo di questa giovane donna che lavora, esce di casa per prendere l’acqua, s’attarda in cortile con le vicine, cuoce il pane nel forno comune, va a prendere la legna per i campi, si reca a pregare nella sinagoga e sogna, come tutte le sue coetanee, di formare una famiglia e avere dei figli. È in questa dimessa ferialità dal sapore casalingo che il progetto di Dio si fa salvezza per l’uomo!


Grande speranza e consolazione per noi!

La salvezza passa attraverso la fatica della ferialità che viviamo, soprattutto quando ci sentiamo ai margini, trascurati e ingolfati in un quotidiano che scorre senza sussulti. E grazie a Maria di Nazareth custodiamo la certezza che Dio sta dentro il poco che siamo e che facciamo e soprattutto sta dalla parte di chi non fa notizia e si affida a Lui con fiducia. Dio, sembra dirci infatti Maria, si lascia incontrare dagli umili che confidano in Lui e che da Lui attendono la salvezza mentre lottano ogni giorno per la giustizia.


Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Ed ecco lo stile nuovo che cambia la storia. E la marginalità diventa il centro attorno a cui tutto si rinnova.

“Serva del Signore”, di più, meglio, schiava – così si è percepita Maria, e non per rassegnazione ma per vivo desiderio, pregno di gioia, e così ha cambiato la storia.

“Serva” vuol dire totalmente afferrata dal progetto di Dio e immediata nell’obbedienza: “Come gli occhi della schiava alla mano della sua padrona - diciamo con il salmista - così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio” (Sal 123, 2).

Tocca a noi ora coltivare questo sguardo vigile, pronto ad assecondare Dio ed essere immediati nell’accoglienza amorosa dei suoi desideri, per piacere a Lui e con Lui rimpastare il mondo, in gioia e gratuità!

Buona festa!

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Quando c’è di mezzo l’amore, quello vero, il giogo è dolce e ogni peso leggero.


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 11,28-30

In quel tempo, Gesù disse:

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

 

Ogni volta che leggo questo vangelo mi torna alla mente l’invito parallelo della sapienza che scorre agile nel Libro del Siracide:


«Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione,

prendete dimora nella mia scuola.

Perché volete privarvi di queste cose,

mentre le vostre anime sono tanto assetate?

Ho aperto la mia bocca e ho parlato:

"Acquistatela per voi senza denaro.

Sottoponete il collo al suo giogo

e la vostra anima accolga l'istruzione:

essa è vicina a chi la cerca”» (Sir 23,26).


“Avvicinatevi”, “venite”: sono anche i verbi della sequela, dell’invito che il re rivolge a tutti per partecipare alla festa di nozze del figlio (Mt 22,4), e di Gesù che invita tutti a entrare nel regno (Mt 25,34).

È bello, consolante che quest’invito sia gratuito e mai sottoposto a condizioni. Anzi, se sei stanco e oppresso, “senza istruzione”, “assetato” hai una chance in più per essere subito accolto e trovare ristoro. E lo dico perché qui, nel vangelo e nel libro del Siracide, gli oppressi, stanchi, assetati e senza istruzione sono coloro che soffrono per le penalità della vita, che vivono sotto il peso del peccato, il loro e quello degli altri, che si sentono schiacciati da strutture ingiuste e leggi farisaiche. Insomma, tutta gente in qualche modo bisognosa di misericordia: metteteci dentro anche i pubblicani, le prostitute e i peccatori, di ieri e di oggi, di fatto o solo nel cuore.


La buona notizia dunque è che qui, nel cuore mite e umile di Cristo, tu trovi l’acqua della misericordia che disseta e ne provi un gran sollievo. Non per un momento, ma per sempre. Chiunque tu sia. Vorrei soppesassimo la forza di questa rassicurazione con cui Gesù ci raggiunge: «io vi darò ristoro».


Questo avviene facendo un semplice gesto: «Prendete il mio giogo sopra di voi». Attenzione però: il giogo offerto da Gesù non è una schiavitù, un’oppressione, uno svilimento che annienta la tua dignità. Al contrario: sottoporre «il collo al suo giogo» significa fare alleanza con il Signore, avere con Lui il legame forte, indissolubile ed eterno che unisce due sposi.

E si sa, quando c’è di mezzo l’amore, quello vero, tutto diventa dolce e ogni peso leggero.

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