Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Oggi la Chiesa celebra la festa di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, fratello universale, umile e povero, “somigliantissimo a Cristo”.
Già dal 2005, anche il Parlamento italiano aveva riconosciuto nel Poverello d’Assisi, simplex et idiota, “l’uomo del dialogo” e aveva indicato il 4 ottobre come “Giorno del dono, solennità civile e giornata per la pace, per la fraternità e il dialogo fra le religioni”. Francesco dunque, con la sua vita e la sua familiarità con la Scrittura, ci aiuti ad accogliere la Parola del Vangelo che abbiamo appena letto affinché, come lui, possiamo dire: "Questo voglio, questo cerco, questo desidero fare con tutto il cuore".
E veniamo al Vangelo.
Dio – dice oggi Gesù nella sua preghiera di lode – è “Signore del cielo e della terra”. Non di una sola nazione, non di una sola fetta di cristiani, non di una cerchia ristretta di uomini da lui benedetti e abbracciati in alleanza perenne. Spogliamoci dunque dalla pretesa che Dio sia dalla nostra parte e rivestiamoci della tunica indivisa di Cristo ricorrendo alla sapienza che scaturisce dalla piccolezza evangelica.
Sapienti e dotti di questo mondo – lo stiamo vedendo – hanno fallito!
Dall’alto delle loro pretese, quasi fossero i supplenti di Dio, hanno sparso la zizzania della confusione facendo germogliare solo odio e violenza.
Agli oppressi di questo nostro tempo invece, a chi ormai è piegato dalla stanchezza, prosciugato dal dolore e derubato della giustizia, Gesù ha ancora una parola da dire, una consolazione da dare: “Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me”.
Certo, una linea sottilissima sembra separare questo invito del Signore dalla legittima necessità di vivere e sopravvivere con dignità, ma non è così. Anzi, tutt’altro! Gesù non parla né di vincitori né di vinti e non ammette né gli uni né gli altri perché la logica del Vangelo è ben altra e non si riduce certo ad un manuale che detta le condizioni di un armistizio precario.
“Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me” è piuttosto un invito a sperare quando non vediamo più luce, un ristoro quando siamo sfiniti, un sollievo quando gli altri, tra indifferenza e sopruso, c’impongono un giogo insopportabile.
Con un impegno concreto però, che è affidato alle nostre mani e al nostro cuore: la speranza va concretamente alimentata, il ristoro dato, il sollievo offerto, il sopruso denunciato, l’indifferenza bandita.
“Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me” – ormai è chiaro – è una dichiarazione di alleanza e di missione che Dio sugella con i piccoli del Vangelo che si affidano a Lui. E Lui, che è fedele sempre, rovescerà i potenti dai troni e innalzerà gli umili. Lo ha fatto e lo farà ancora.
Anche i dotti e i sapienti, per quanto forti si sentano, non sono eterni.
Ridestiamoci dunque a ciò che siamo davvero: figli di Dio e fratelli tra noi!
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