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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo

Terapia d'urto



Come i discepoli, impariamo a sentire la fame e il dolore della gente. Sia per noi una ferita nel cuore - terapia d'urto! - che si lenisce solo con la compassione.


Dal Vangelo secondo Marco

Mc 6,53-56

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli, compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono.

Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse.

E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati.

 

Facciamo un passo indietro. Ai discepoli durante la traversata del lago era capitato di tutto: il vento contrario, Gesù che cammina sulle acque sembrando un fantasma ai loro occhi, e quindi la paura, le grida, lo sconvolgimento, fino a essere “interiormente fuori di sé”.


Un’esperienza drammatica, causata però dal loro “cuore indurito”. Il testo dice che “non avevano capito un granché” a partire dall’episodio dei pani, quando giunta la sera, dinanzi alla folla affamata, avevano proposto a Gesù una soluzione comoda: “Congedali!” e di rimando si sentono ‘congelati’ dalla sua risposta: “Voi stessi date loro da mangiare!” (Cfr. Mc 6,37.51.52).


Tuttavia la traversata si compie. Il testo dice letteralmente che “gettarono le ancore”, ma non lì dove Gesù aveva inizialmente ordinato, ossia sull’altra riva del lago verso Betsaida, bensì sulla riva occidentale, a Gennèsaret.

Sembra proprio che Gesù, non ritenendoli ancora pronti per la missione, voglia prendere tempo. Manca loro quella profonda compassione che si muove con generosità ed equilibrio, tra il servire «a lungo» e riposare «un po’». L’approdo a Gennèsaret è dunque per i discepoli una terapia per la loro durezza di cuore: gettino le ancore, dunque, si fermino, vedano e maturino.


Quanto è importante questa terapia d’urto se vogliamo davvero che la gente ‘ci riconosca’. E dico questo perché la gente, che ha fiuto, di questo gruppetto di uomini scesi dalla barca riconoscono subito solo Gesù – la gente subito lo riconobbe – e non i discepoli che pur gli erano stati accanto praticamente sempre nella missione e addirittura loro stessi erano già andati in missione a due a due, annunciando il vangelo e ungendo di olio i malati. Davvero parole e opere, per quanto efficaci sembrino, non bastano se manca la compassione.


E cosa vedono a Gennèsaret questi discepoli ‘in cura’?

L’evangelista Marco non accenna neanche a un gesto taumaturgico e compassionevole di Gesù. Punta tutto sulla gente che si mette a correre. Corrono prima per andare a casa a prendere i loro malati e poi corrono ancora per condurli a Gesù sulle barelle. Sembra che questa sollecitudine sia la prima cura necessaria, anche per i discepoli. Devono vedere la premura di questi barellieri che prendono su di sé la sofferenza degli altri. E questo non solo perché non venga più loro in mente di dire “congediamo la folla affamata, si arrangino, corrano loro a trovare del cibo”, ma perché imparino a prevenire i bisogni degli altri, e siano loro a correre verso la gente. Sentano la fame e il dolore delle folle come ferita nel cuore che solo la compassione può lenire.


E infine i malati stessi sono terapia per i discepoli, nel loro supplicare di poter toccare almeno le frange del mantello di Gesù.

Sapete a cosa servivano le frange dei mantelli indossati dagli ebrei osservanti? A ricordare loro i comandamenti. Era un segno antico che già negli abiti degli schiavi indicava l’appartenenza e la lealtà verso il loro padrone. Toccare la frangia del mantello di Gesù significava dunque attingere all’energia che scaturiva dalla sua relazione con il Padre. Energia d’amore che genera amore.


Toccare quelle frange è come succhiare la compassione di Dio. E lasciarsi toccare nelle frange del proprio mantello significa “dare noi stessi da mangiare”.

È a questo che il Signore ci chiama.

Ora è tempo anche per noi di levare le ancore e salpare per riprendere la traversata della compassione, senza paura, fino a giungere all’altra riva, lì dove “molti” hanno bisogno di noi.

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