Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,39-45
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Abbiamo già commentato questo brano domenica scorsa e varrebbe la pena rileggere quella riflessione per introdurci a quanto vorrei dirvi oggi (vedi ilLINK).
Entrata nella casa di Zaccarìa, Maria “salutò Elisabetta”.
Presso gli Ebrei la formula di saluto era “Shalom”, “Salute”, “Rallegrati”, accompagnata spesso da un gesto carico di significato: si poggiavano le mani sulle spalle dell’altro e poi ci si baciava, prima sulla guancia destra e poi sulla sinistra o addirittura, per esprimere affetto e tenerezza, sulla bocca. A volte si faceva anche un inchino, specie per accogliere un ospite illustre. In ogni caso questo saluto era ben più di un’espressione di cortesia e di cordialità. Si trattava di un augurio, di pace soprattutto.
Tuttavia in Maria lo “shalom” è qualcosa di ancora più grande: lei porta in grembo Gesù, il Principe della Pace e la pienezza della gioia messianica! “Ti do la mia pace” – avrebbe potuto dire – “ti offro la mia gioia”.
Ma cos’era la pace presso gli Ebrei, che può essere anche la nostra?
Vedete, lo shalom raccoglie una costellazione di molteplici beni: la salute, la prosperità, la salvezza, la benevolenza, la gioia, la sicurezza, la serenità, la beatitudine, il perdono. Ma non in termini astratti. Dire ‘pace’ significa: possa tu vivere in buona solute, nell’abbondanza più dignitosa e, noi aggiungiamo, non opulenta. “Shalom” è scampare un pericolo, incontrarsi in amicizia, visitare con affetto, evitare le discordie, sradicare l’odio dal cuore, offrire e accogliere il perdono.
Questa pace è dono di Dio. Un dono che conservi solo se lo offri, ad amici e nemici. Dio ti dona la pace perché tu, custodendola in cuore, possa trasmetterla concretamente attraverso gesti e parole che accolgono e uniscono, sostengono e leniscono, senza filtri né posa né apparenza.
La pace non è un’invenzione dell’uomo che cerca nel quieto vivere un rifugio comodo, ma è rispetto dell’armonia che già si trova nelle cose che Dio ha creato per noi, per la nostra gioia.
Intimamente legato a Maria, questo dono di Dio esige il calore di cuore accogliente e ben disposto affinché, come scriveva il Vescovo Bregantini, possiamo passare “da un bisogno di pace (che resta emotivo) a scelte vere di pace, che chiedono decisioni coraggiose ed una nostra chiara collocazione di campo. Con gli umili e i poveri!”.
Appena quattro giorni e saremo a Natale. Quest’anno nella nostra chiesetta dell’Eremo vorrei porre la greppia del Bambinello su un piccolo cumulo di cocci: frammenti sparsi di vasi infranti, terracotta ordinaria, ruvidi, acuminati, frantumi di bottiglie di vetro andate in pezzi, lì a ricordarci cosa noi, da soli, lontani da Dio, siamo capaci di fare scaraventando nella terra dell’egoismo il dono della pace. Tra quei cocci le nostre lacrime e su quel cumulo di terraglia inservibile la nostra unica speranza: Gesù, con la certezza che a partire dalla sua venuta tutto si può restaurare, tutto si può ricomporre. “La mia salvezza non tarderà”, dice il profeta Isaia (43, 13).
Ad una condizione però, se abbiamo il coraggio di chiamare cocci le nostre ferite, quelle inferte e quelle subìte, se smettiamo di sentirci orgogliosamente a posto con noi stessi e con gli altri, quasi perfetti, inossidabili e mai più puntigliosamente arroccati nella falsa immagine di noi stessi che per troppo tempo esposta impunemente all’ammirazione degli altri.
E su questi cocci, lì dove s’infrange l’ipocrisia dell’apparenza, sarebbe bello poter scrivere due parole che Papa Francesco ci ha invitato a custodire nel cuore. Sono parole che pesano – Dio solo sa quanto! – ma che ci rendono vivi e finalmente pronti a rinascere: “scusa” e “grazie”. Anzi il Papa, a ben ragione, aveva aggiunto “permesso”, denunciando quelle relazioni che marciscono nella palude della pretesa e mettendoci in guardia dal formalismo delle buone maniere che nascondono cattive abitudini.
È sempre questione di finezza!
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