- Comunità dell'Eremo
- 1 mar 2023

Rinunciare a fare del bene è una sorta di latitanza dorata, un peccato vilmente nascosto nel retrobottega della nostra coscienza.
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 7,7-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono! Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti».
Nella letteratura talmudica si racconta che un pagano si presentò al rabbino Hillel chiedendo di essere convertito a condizione di imparare in fretta tutta la Torà. Il saggio Hillel gli rispose: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torà, il resto è commento, va’ e studia”.
Non ci è dato di sapere se Gesù conoscesse questa massima di Hillel, peraltro molto nota, ma ancora una volta ci mostra come “ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli” debba essere “simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,51).
La novità introdotta da Gesù è tuttavia evidente: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Non si tratta dunque solo di non fare al prossimo ciò che non piace sia fatto noi ma, positivamente, di fare agli altri tutto quanto vogliamo che gli altri facciano a noi. E non è cosa da poco.
Naturalmente non fare il male è già una buona cosa, un primo passo, ma non si può rimanere nel limbo delle omissioni, ossia: non faccio ciò che male ma non voglio neanche espormi troppo nel fare del bene. Molto spesso infatti non fare del bene diventa una scorciatoia al male, che inevitabilmente avanza. E avanza perché non trova ostacoli.
Pensate a tutte le volte che facciamo finta di non vedere – il male soprattutto, oltre che il dolore – e lasciamo che tutto rimanga come sta, perennemente ripiegati solo sui nostri bisogni. Pensate a certi “silenzi pesanti”, talora complici, dinanzi all’ingiustizia che dilaga.
Vediamo che c’è un bene da fare, una posizione da prendere, ma di sporcarci le mani e di uscire allo scoperto non ne vogliamo sapere. Cos’è: vigliaccheria, distrazione, quieto vivere, paura?
Noi magari chiamiamo in causa la prudenza e l’impotenza, ma la verità è che ce ne stiamo con le mani in tasca e rimaniamo in pantofole seduti sul divano. Stiamo lì ‘solo’ a guardare da uno schermo ciò che sta avvenendo nella vita di molti; magari divoriamo giornali e news da internet, ci sdegniamo con veemenza, ma la nostra postura non cambia e la comoda poltrona dove si stravacca il nostro egoismo s’affossa via via sempre più sotto il peso di gravi omissioni. “Lo sdegno non basta, se non avremo fatto del bene”, dice Papa Francesco.
Oh, a proposito, non illudiamoci: l’omissione oltre a essere una rinuncia a fare del bene e una sorta di latitanza dorata, è peccato, vilmente nascosto nel retrobottega della nostra coscienza!
- Comunità dell'Eremo
- 28 feb 2023

All’inizio del nostro cammino quaresimale, il segno di Giona ci è posto davanti come annuncio e invito alla conversione. Cosa vogliamo farne? Rifiutarlo, come fece Israele, oppure accoglierlo?
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11,29-32
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire:
«Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone.
Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona».
«Per metterlo alla prova, gli chiedevano un segno dal cielo» (Lc 11,16). Lo notifica nei versetti precedenti l’evangelista Luca riferendosi ad alcuni tra la folla che, avendo assistito ad un esorcismo, non avevano creduto nella potenza taumaturgica di Gesù. Anzi, si erano spinti oltre contestandolo aspramente: «È per mezzo di Beelzebul, principe dei demoni, che scaccia i demoni» (Lc 11,15).
Ora questa folla, in parte contestatrice e in parte stupita, si accalca attorno a Lui. La polemica non si spegne. Del resto l’accusa che gli avevano rivolto era stata davvero forte.
È a questo punto – ecco il vangelo di oggi – che Gesù risponde con dure parole di condanna, definendo «questa generazione» una «generazione malvagia».
Naturalmente non dà seguito alla loro richiesta - un segno dal cielo per dimostrare la sua identità! - se non attraverso «il segno di Giona», che non era certo il segno sperato.
Cosa intende dire Gesù attraverso il «segno di Giona»?
Agli abitanti di Ninive il profeta Giona aveva lanciato un durissimo avvertimento: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Gio 3,4). Sappiamo tutti come andò a finire: i niniviti si pentirono della loro condotta malvagia e proclamarono un digiuno.
Contrariamente a loro, pagani convertiti, – ecco a cosa si riferisce Gesù – Israele sta accogliendo il suo annuncio con scetticismo. La loro incredulità è granitica.
Pensate, aggiunge Gesù, insistendo nel voler suscitare una presa di coscienza: la regina del sud affrontò un viaggio lunghissimo per ascoltare la sapienza di Salomone. E voi, che avete l’opportunità di ascoltare uno «più grande di Salomone», che fate? Ve ne infischiate, fate gli increduli, anzi lo mettete addirittura alla prova e lo accusate di essere un tirapiedi di Satana.
E per noi oggi?
All’inizio del nostro cammino quaresimale il segno di Giona ci è posto davanti come annuncio e invito alla conversione. Cosa vogliamo farne? Rifiutarlo, come fece Israele, oppure accoglierlo?
- Comunità dell'Eremo
- 27 feb 2023

Il “Padre nostro” sia la nostra preghiera nell’abbraccio dei tre: Io, Dio e mio fratello.
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 6,7-15)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe».
Ricordate quando nella parabola del padre misericordioso il figlio più giovane, dopo aver sperperato un patrimonio vivendo da dissoluto, decide di ritornare a casa? Si era preparato un bel discorsetto per convincere il padre a riaccoglierlo: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,18).
Chissà quante volte lungo la via del ritorno si era ripetuto quelle parole, misurandole, limandole, con la speranza di essere convincente, “di essere ascoltato a forza di parole”. “Quando era ancora lontano – dice il testo - suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Del suo discorsetto, il giovane riesce a dire ben poco. Il padre poi non gli risponde neanche, né per sfoderare rimproveri né per chiedere spiegazioni. Gli si getta al collo e lo bacia, affrettandosi a rivestirlo della sua dignità e a far festa per lui.
Questo è ciò che accade quando preghiamo. Noi pensiamo di dover trovare le parole giuste per dialogare con Dio, magari per convincerlo ad ascoltarci ed esaudirci o forse solo perché abbiamo la pancia piena di carrube che non sfamano e cerchiamo un pane che ci sazi. Noi chiediamo cose. Anche cose buone. E se siamo lì davanti a Lui è perché ci siamo finalmente alzati e siamo usciti dal recinto dei porci per tornare a casa. Ma non immaginiamo neanche cosa ci riservi davvero l’incontro con Dio.
Il “Padre nostro” è un abbraccio.
E quando preghi così Dio ti si getta al collo perché è tuo padre.
E il tuo ritorno a Lui santifica il suo nome. Poi ti rimette l’anello al dito, i calzari ai piedi e la tunica della ritrovata dignità: quello è il suo regno che viene, la sua volontà che si compie, in cielo e finalmente anche nella terra della tua fragilità redenta. E poi spezza il pane per te e mentre dici “rimetti a noi i nostri debiti”, Lui ha già organizzato per te la festa del perdono. Eri morto e sei tornato in vita, eri perduto e Lui ti ha ritrovato: “Bisognava far festa!”.
Ti ha lasciato andare quando così hai deciso, e lo ha fatto per amore e rispetto della tua libertà, ma non ti ha abbandonato alla tentazione: sulla soglia della sua misericordia, guardando con trepidazione verso l’orizzonte della tua libertà, è rimasto ad aspettare, continuando a gettare lo sguardo sulla strada del tuo ritorno per riaverti sano e salvo a casa, libero dal male.
In questo abbraccio però – ed ecco il cuore grande di Dio! – non ci sei solo tu.
Dio è padre “nostro” e ce lo ricorda quando, come il fratello maggiore della parabola, noi ci ostiniamo a dire “tuo figlio” e non “mio fratello”, e lasciamo che prevalga la rabbia sul perdono. A quel punto è Dio che esce di casa, ci raggiunge nei nostri malanimi, e viene a pregarci: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”, "ma sentirai di esserlo davvero e di avere davvero tutto ciò che possiedo – ed io ho solo amore! – solo se capirai e accetterai con gioia che “questo è tuo fratello” (Cfr. Lc 15,31-32).
Il “Padre nostro” sia dunque la nostra preghiera nell’abbraccio dei tre: Io, Dio e mio fratello.