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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 13,16-20


[Dopo che ebbe lavato i piedi ai discepoli, Gesù] disse loro:

«In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica.

Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno. Ve lo dico fin d'ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io sono.

In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato».

 

A volte mi chiedo se le nostre chiese vuote e la superficialità della nostra testimonianza cristiana non dipendano da un macroscopico malinteso: che Cristo ci abbia proposto come meta ultima la vetta del Golgota, capolinea del dolore, dell’umiliazione e della morte. Niente di tutto questo! Sgombriamo perciò il campo da queste visioni nere di disfatta che non fanno onore alla nostra fede.

La meta è un’altra ed è diametralmente opposta al dolore e alla sconfitta. Si chiama la beatitudine, alias felicità vera e duratura, che Dio stesso ha posto nel nostro cuore.

Il Vangelo di oggi, che ci consegna le parole dette da Gesù dopo il gesto profetico della lavanda dei piedi, ci indirizza verso il compimento pieno della beatitudine: “Sapendo queste cose, beati se le mettete in pratica”.


Ma cos’è che dobbiamo sapere in ordine alla felicità a cui tutti aspiriamo?

Innanzi tutto, che forse non siamo beati perché abbiamo cercato la felicità nel posto e nel modo sbagliato. E poi perché abbiamo scambiato la felicità con il piacere.

Lasciatemelo dire: la felicità, così come spesso la cerchiamo, è solo un bene di consumo. Cerchiamo il piacere immediato, la soddisfazione a portata di mano, illudendoci sugli effetti a lungo termine di questo mediocre surrogato di ridotta beatitudine.

Fortuna, ricchezza, notorietà, potere: queste sono le cianfrusaglie luccicanti che abbiamo sott’occhio girando tra le bancarelle di un mercato che vende la felicità – ahimè, contraffatta! – a prezzi elevatissimi. Sì, perché per aggiudicarci quelle quattro cianfrusaglie – patacche di pacchiana bigiotteria senza valore – siamo disposti a investire tutta la nostra vita, costi quel che costi.

Vogliamo darci una svegliata?

La mappa autentica che ci conduce alla beatitudine è stata tracciata da Gesù nel cenacolo attraverso l’eucaristia e la lavanda dei piedi. Entrambi ci dicono che l’unico cammino che ha come meta la gioia è il dono di sé.

Che concretamente significa:

‘fatti discepolo’, ascolta Gesù, e cercalo nell’eucaristia per divenire un corpo solo con Lui; ‘fatti mangiare’ anche tu come ha fatto Lui, donando la tua vita; 'fatti servo', metti il grembiule e lava i piedi agli altri, amandoli come Lui ci ha amati (cfr. Gv 13,34).

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 14,6-14


In quel tempo, disse Gesù a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».

Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: Mostraci il Padre?

Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.

In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò».

 

Nel Libro dell’Esodo si dice che “il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Es 33,11). Mosè, dal canto suo, gli era così intimo e familiare da sentirsi libero di rivolgersi a Lui dicendo: “Se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che io ti conosca. Mostrami la tua gloria!" (Es 33,13.18).

Solo se si è alla ricerca di un’intimità profonda con Dio possono maturare desideri tanto intensi. Forse anche un po’ ingenui, ma senz’altro audaci.


Qui, nel Vangelo, la richiesta di Filippo - «Signore, mostraci il Padre e ci basta» - matura nella confidenza di un’amicizia salda ed esprime lo stesso desiderio di Mosè. Con una coloritura nuova, perché non lo fa solo per se stesso, ma parla a nome del gruppo dei discepoli.

Mosè faceva da mediatore tra Dio e il popolo, Filippo è invece la cassa di risonanza del sentire di tutti. Anche del nostro sentire.

Percepire la paternità di Dio ci è assolutamente necessario, non solo per non sentirci orfani o figli di nessuno, ma per capire la nostra stessa identità. Forse anche noi, come Filippo, andiamo in cerca di una manifestazione eclatante di Dio che ci confermi nella fede e nel Suo amore. Come lui siamo impazienti, vorremmo vedere tutto e subito, e tutto e subito capire.

Di fatto però in questo desiderio Dio, come fa sempre per le cose che contano, ci ha preceduto rivelando se stesso attraverso il Figlio: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dice Gesù a Filippo, forse con una punta di amarezza perché ancora i discepoli non riconoscono chiaramente nel loro Maestro la presenza e le opere del Padre.

A loro e a noi, quasi per scuoterci, ma con tono persuasivo e rassicurante, s’affretta a dire ancora: “Credetemi! Se non altro, credetelo per le opere stesse”.

Ecco, le opere, i segni, i miracoli: ma li stiamo vedendo davvero nel Vangelo che ascoltiamo ogni giorno? E se li stiamo vedendo, li sappiamo leggere poi dentro la nostra vita? Quel miracolo di Gesù, quel segno, quell’opera sono lì per realizzarsi anche in noi.

Ci sentiamo coinvolti davvero dentro questi segni che ci rivelano il mistero di Dio il cui volto splende in quello di Cristo? O forse dovremmo smettere di accontentarci di una conoscenza superficiale di Lui e delle sue opere per giungere con consapevolezza ad una conoscenza più profonda, che ci cambia la vita?

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Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 10, 22-30

Ricorreva, in quei giorni, a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».

Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

A Gerusalemme ricorreva la festa della Dedicazione, memoria vivissima della riconsacrazione del Tempio dopo lo scempio della profanazione operata del re siriano Antioco IV che in quel luogo santo aveva fatto offrire un sacrificio al simulacro di Zeus.

Gesù è lì tra la gente e passeggia sotto il portico di Salomone. Ad un certo punto gli si fanno intorno i giudei, quasi lo accerchiano e, dice il testo, “gli dicevano: Fino a quando ci terrai con l’animo in sospeso? Se tu sei il Messia, diccelo apertamente” (Gv 10,24).

L’evangelista annota: “era inverno” (Gv 10,22).

È sempre inverno quando ci lasciamo trascinare dall’incredulità ad accerchiare la Parola di Dio sminuendola fino a soffocarla negli schemi angusti delle nostre vedute. È ancora inverno quando rifiutiamo la logica del Vangelo e, come il re Antioco, consacriamo agli idoli il tempio del nostro cuore abitato dallo Spirito.

A questo grappolo di Giudei che lo incalzano, Gesù risponde: "Ve l'ho già detto, ma non mi avete creduto”. E aggiunge, andando al nocciolo della questione: “Voi non volete credere, perché non siete delle mie pecore”. Cioè, “non ne volete far parte, vi siete tirati fuori pensando che io sia un imbroglione e un millantatore” (Gv 10,26).


Costoro non avevano né accolto né capito che Gesù è il buon pastore e, al contempo, la porta dell’ovile da cui passa la salvezza. E notate: nel linguaggio biblico la porta non indica solo un luogo di passaggio, ma spesso sta a significare la città o il tempio nel suo insieme (cfr. sal 87; 122,2). Quindi Gesù è “luogo” di salvezza, non semplicemente “via”.


Non a caso aveva detto: “io offro la vita per le pecore” (v.15). Un “offrire” che, tradotto letteralmente, significa: “deporre l’anima a favore di qualcuno”, cioè spingersi al sacrificio supremo per salvare un amico.

Questa sua offerta poi, come esprime lo stesso verbo ‘deporre’, è fatta con estrema libertà, per amore: Gesù può privarsi della vita e può riprendersela perché è il Signore della vita e della morte.

Questo avrebbero dovuto capire quei Giudei. E non solo loro.

Forse anche noi dovremmo custodire meglio, come dice Papa Francesco, “la memoria della nostra salvezza, della gratuità della salvezza e della vicinanza di Dio”.



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