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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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  • Immagine del redattore: Comunità dell'Eremo
    Comunità dell'Eremo
  • 4 mar 2023


Guardando a Lui - il Signore! - e solo a Lui, senza filtri d’ambiguità, nel silenzio dell'affanno consegnato alla fede, sapremo riconoscere che la nostra storia è saldamente nelle mani di Dio.


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 17,1-9


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.

Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti».

Ogni dettaglio qui nel Vangelo annuncia il mistero di Gesù: un alto monte, il suo volto splendente che brilla come il sole mentre le sue vesti diventano candide come la luce e poi ancora la nube luminosa che avvolge tutti con la sua ombra, così come nell’Esodo proteggeva il popolo d’Israele nel deserto, segno della presenza di Dio che accompagnava Israele lungo il cammino verso la terra promessa. Tutto qui, nella sua trasfigurazione, dice che è lui il Signore, acclamato dal salmista come «rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto» (Sal 104,1-2). È Lui la rivelazione definitiva di Dio, colui che, come nuovo Mosè, consegna la legge nuova a un popolo nuovo, ben disposto all’ascolto.


Dalla nube, una voce, già udita al momento del battesimo di Gesù: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». «Una voce» che esprime il pensiero di Dio e che qui in particolare si fa invito: «ascolta!». Anzi, di più, diventa esortazione pressante, appassionata, soprattutto esigente. Sì, esigente perché ascoltare, nel vocabolario biblico, non significa semplicemente “udire”, ma accogliere il messaggio, sottomettersi ad esso con docilità eseguendo puntualmente ciò che è stato ascoltato.


«Ascoltatelo» è dunque sinonimo di “obbedite”.

Questa è la qualità di ascolto che oggi ci chiede il Signore, soprattutto quando ci pone dinanzi a cammini impegnativi, radicali, generosi; quando ci indica strade strette e ci propone scelte alternative, a volte anche paradossali, umanamente incomprensibili, persino assurde.

Forse per questo non possiamo indugiare nella fissità di tre tende, come vorrebbero fare i discepoli, e lì godere della presenza di Dio, godere e basta.

Ascolto e obbedienza, ormai lo abbiamo più che intuito, esigono infatti di sentirci ed essere sempre in cammino e come Gesù diretti alla meta, avanzando decisamente finché non si compie il disegno del Padre.


Certo, la visione, la voce, l’ascolto possono farci paura: è una reazione umana! Così è stato per i discepoli, così è anche per noi.

Ma quand’è che tutto cambia e la paura si scioglie nella fiducia?

Quando ci alziamo dalla terra dei nostri affanni, quando tacitiamo i rumori assordanti dei nostri piccoli e grandi desideri sospesi e, alzando gli occhi, come fanno Pietro Giacomo e Giovanni, guardiamo «Gesù solo». Guardando a Lui e solo a Lui, senza filtri d’ambiguità, nel silenzio dell'affanno consegnato alla fede, sapremo riconoscere che la nostra storia è saldamente nelle mani di Dio.

 
 
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    Comunità dell'Eremo
  • 3 mar 2023


Non ristagniamo nella palude dei rancori. Amiamo anche quelli che non ci amano e diamo a tutti, amici e nemici, il saluto della pace, mentre in cuore, per la forza dello Spirito «gridiamo: “Abbà! Padre!”».


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 5,43-48

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

È già cosa triste dover constatare e ammettere che un fratello, una sorella ti sia nemico/nemica. È triste perché siamo tutti riflesso e ritratto di Dio, “a sua immagine”, da Lui plasmati per amore e da Lui resi capaci di amare. Ma è ancor più triste percepire che IL TUO CUORE, lì dove decidi della tua vita, lì dove maturi le scelte più grandi, sia spesso, troppo spesso, come un dito puntato contro l’altro, incline più all’accusa che alla misericordia, al rancore più che al perdono.


Questa tristezza però – non dimentichiamolo! – non ha il potere di spegnere la grazia. Anzi, la grazia, come un fiotto continuo d’acqua sorgiva, ogni giorno pungola questa tristezza che ci abita dentro, e lo fa soprattutto con la parola del Vangelo, per scuotere le nostre coscienze raggomitolate nell’ambiguità e nel compromesso: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici”.


Amare il nemico si può, si deve, perché siamo figli del Padre che è nei cieli.

Amare è un atto dovuto, rispettoso della nostra identità di figli e fratelli, sempre. Ed è un atto a fondo perduto che germoglia per fede e matura in gratuità, oltre la ruggine dei rancori che rilasciano tossine devastanti.


Ostinarsi a non cedere alla mitezza disarmata dell’amore che abbraccia anche il nemico è, al contrario, un atto mancato.

Un atto mancato: gli psicologi dicono che è un fenomeno psichico che consiste in un errore d'azione: si vorrebbe fare una certa azione e invece se ne fa un'altra. Sì, è vero, perché il più delle volte, come dice Paolo, “io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,19).

Tuttavia - diciamola tutta – non basta che in me ci sia il desiderio del bene, se poi rimane soffocato dall’incapacità di attuarlo. Gratta gratta, questa incapacità, pur sempre latente, se si rivela determinante ad oltranza è segno che nel mio intimo io sto acconsentendo alla legge di Dio solo in modo epidermico. Nessuno di noi infatti è così schiavo del peccato da non riuscire a tirarsi fuori da questa spirale di morte aggrappandosi alla grazia, che rende in noi possibile ciò che a noi possibile non è.


Ancora l’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, diceva: «Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). È l’acme del dissidio che ci portiamo dentro. Ma per venirne fuori una via c’è: è lasciarsi afferrare e liberare da Cristo per camminare secondo lo Spirito «che tende alla vita e alla pace» (Rm 8,6), fino ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste. Dio, dice ancora Paolo, «lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio» (Rm 8,3).


Non ristagniamo dunque nella palude dell’odio. Amiamo anche quelli che non ci amano e diamo a tutti, amici e nemici, il saluto della pace, mentre in cuore, per la forza dello Spirito «gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15).


 
 
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    Comunità dell'Eremo
  • 2 mar 2023

A volte ammassiamo così tanti rovi attorno alla Legge e attorno al cuore che finiamo per tradire il comando dell’amore, che è il cuore della Legge.


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 5,20-26


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: Stupido, dovrà essere sottoposto al sinèdrio; e chi gli dice: Pazzo, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo!».

Tra i testi della tradizione rabbinica c’è una raccolta – la Mishnà – che invita in modo pressante a fare una siepe attorno alla Torà”, ossia a custodire con zelo i precetti biblici.

L’immagine della siepe è emblematica: dice protezione ma anche fioritura.

Scribi e farisei però si erano affannati a circondare la Legge del Signore con una miriade di precetti, più simili a un ammasso di rovi che a una siepe verdeggiante e avevano finito per soffocarla e rendere la sua osservanza come un peso intollerabile.

Ora Gesù con il suo insegnamento non solo vuole custodirla, ma vuole che attorno ad essa la siepe fiorisca. Ecco il senso del suo: “Ma io vi dico…”.


Far fiorire la siepe vuol dire innanzi tutto rimettere Dio al suo posto, cioè al centro della Legge, e non i nostri schemi parziali e provvisori che ci rendono o bigotti o sovversivi. Solo se Dio sta al centro noi possiamo essere perennemente aperti alla novità del suo irrompere nella storia, aperti allo Spirito, ogni giorno. E in questa novità d’ascolto, grazie allo Spirito, rimaniamo fedeli alla Legge del Signore senza mortificarla.


La siepe fiorita attorno alla Legge diventa così carità autentica. Una carità dai tratti finissimi, come ci mostra oggi Gesù. Uccidere – dice con forza – non è solo togliere la vita. Anche adirarsi, insultare, screditare è un modo per far fuori il fratello. E la lingua, si sa, può diventare un oggetto contundente e ferire, può scaldare gli animi fino a scatenare incendi nelle nostre relazioni, come dice san Giacomo: “la lingua è una piccola parte del corpo, tuttavia è capace di grandi cose. Vedete, un fuoco per quanto piccolo incendia una foresta tanto grande! Anche la lingua è un fuoco…” (Gc 3, 5-6).


Pensate ancora alla necessità di riconciliarci con il fratello che ha qualcosa contro di noi.

Innanzi tutto – dice Gesù - bisogna evitare di presentarsi all’altare portando con una mano il dono da offrire e con l’altra il peso della discordia con il fratello: “lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti”.


Ed è qui che noi dobbiamo rompere gli schemi di cui vi dicevo perché all’esortazione di Gesù di solito abbiamo subito una contestazione da muovere: perché devo andarci io se è lui ad avere qualcosa contro di me? Chi ha iniziato, io o lui? Se vuole chiarire, venga, ne parliamo, magari davanti a qualche testimone. Io sono ben disposto, ma dev’essere lui a venire da me perché il malessere è cominciato nel suo cuore.


Ragionando così però non facciamo che ammassare rovi attorno alla Legge e attorno al cuore fino a tradire il comando dell’amore che è il cuore della Legge.

Capiamo allora cosa ribolle in quel “Ma io vi dico…”?

 
 

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