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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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    Comunità dell'Eremo
  • 19 mar 2023


Solennità di San Giuseppe


Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 1, 16.18-21.24a


Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.

Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore.

Di Giuseppe, sposo di Maria, se ne sono dette tante, il più delle volte facendo deboli supposizioni perché il testo evangelico è molto scarno a suo riguardo. Proviamo allora a ricostruire semplicemente i fatti, a partire dall’annuncio dell’Arcangelo Gabriele a Maria. Questo evento straordinario avvenne dopo che lei e Giuseppe avevano firmato il ketubbah, stipulando il contratto di matrimonio, dopo il quale i due giovani avrebbero dovuto vivere per un anno senza incontrarsi: un tempo d’attesa per poter maturare a fondo la scelta fatta prima di andare a vivere insieme. È durante questo intervallo di tempo che Maria riceve l’annuncio dell’Angelo e per opera dello Spirito inizia la sua gravidanza.

Come reagisce Giuseppe?

Il testo dice: “era giusto e non voleva accusarla pubblicamente”, ossia non voleva comprometterla esponendola allo scherno e al disonore. Potremmo dire addirittura, più drammaticamente, che non voleva consegnarla alla morte. Secondo il Deuteronomio infatti la donna che non veniva trovata vergine dal marito era punibile con la morte per lapidazione.

Giuseppe valuta allora la possibilità di ripudiarla di nascosto. In questo frangente anche lui riceve in sogno un annuncio e un invito: entra anche tu nel progetto e nel sogno di Dio! E il giovane sposo, senza neanche chiedere spiegazioni, “fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore”.


Questi sono i fatti, che il Vangelo ci consegna come essenziali per aprirci una fenditura sul mistero della nascita di Gesù.

Quindi piuttosto che rincorrere a tentoni le più svariate ipotesi “ricamate” attorno all’agire di Giuseppe, credo sia meglio scavare a fondo sull’aggettivo che l’evangelista Matteo gli abbottona addosso come una giacca che calza a pennello: “era un uomo giusto”. E per Matteo, che nel suo Vangelo usa 17 volte questo aggettivo, è un dato essenziale e lo collega a Gesù stesso, che la moglie di Pilato definì “quel giusto” con cui era meglio non avere niente a che fare (Mt 27, 19).


“Giusto”, secondo Matteo, non è semplicemente buono, onesto. È molto di più:

essere giusti significa osservare in modo irreprensibile i comandamenti di Dio, portare e custodire nel cuore la Torà camminando fedelmente nella legge del Signore per cercarlo con tutto il cuore e trovare la gioia nei suoi comandi più che in ogni altro bene (cfr. Sal 118).

Questa giustizia ha mosso Giuseppe e gli ha dato il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù. Questa giustizia l’ha reso obbediente al disegno di Dio consentendogli di salvare Maria e il bambino che cresceva nel suo grembo, affrontando con fiducia anche la fatica di capire e la paura di dover custodire un dono così grande.

Cos’ha dunque da dirci Giuseppe mentre ci sentiamo solidali con la sua fragilità messa alla prova? Scrive Papa Francesco:

“Giuseppe ci insegna che…la storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza.” (Patris corde).

 
 
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    Comunità dell'Eremo
  • 18 mar 2023


Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 9, 1.6-9.13-17.34-38


In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c'era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell'uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui.

Il brano presenta:

1. un segno-miracolo: la guarigione del cieco.

2. un discorso-dialogo tra Gesù e i suoi interlocutori: una sorta di processo, tra giudici, accusatori e accusati.

Con il suo stile tipico, Giovanni lancia questo grande messaggio, come ribadiscono gli esegeti: “La Luce venuta nel mondo comporta un giudizio che sta per attuarsi: chi crede di vedere rimane nel peccato, a differenza di chi si sente cieco, che viene alla luce”.


Il testo non offre alcuna indicazione di luogo e di tempo: “Passando, Gesù vide…” (v.1) e basta. Come a dire:

il passare di Dio è sempre tempo di grazia e di misericordia. Un tempo che risana, interpella, mette in discussione il nostro modo di vivere ed esige risposte concrete.

Parentesi: E noi, come stiamo vivendo il passaggio di Dio in questo di Quaresima?


Ma dove avviene il fatto? E quando? Leggendo il contesto, possiamo intuire che il Maestro è a Gerusalemme, non lontano dal tempio. Del resto, i poveri, i ciechi, gli zoppi solitamente stavano sotto il portico del tempio o lungo le viuzze vicine a mendicare.

Siamo nel contesto della più grande e della più santa festa della tradizione ebraica: la festa delle Capanne. Originariamente questa festa era una celebrazione stagionale, settembrina, legata alla vendemmia e alla fertilità delle campagne. Nel tempo, poi, si era trasformata in memoria dell’esperienza storica dell’esodo, celebrazione gioiosa del pellegrinaggio. Durante la festa, che durava sette giorni, si celebrava una solenne processione. Il sacerdote insieme con il popolo scendeva alla piscina di Siloe e con una bottiglia d’oro raccoglieva l’emblematica acqua di Siloe, “l’acqua che scorre leggera” (Isaia), in contrapposizione ai fiumi insidiosi dell’Oriente. Nello stesso giorno, quest’acqua veniva versata sull’altare del tempio tra canti e preghiere, certi che, scendendo lentamente dall’altare, raggiungesse le profondità della terra per fecondarla.

Accanto al simbolo dell’acqua si levava radioso il simbolo della luce. A sera, per tutti i giorni della festa, si accendevano infatti degli enormi bracieri sulle mura del tempio, tanto che la notte sembrava chiara come il giorno. Tutti cantavano e danzavano con le torce accese, accompagnati dal suono del flauto.

Acqua e luce annunciavano così per sette giorni il senso stesso della vita: siamo pellegrini che camminano speditamente verso una meta gloriosa.

Alla luce di questa celebrazione liturgica che fa da cornice alla guarigione del cieco, comprendiamo meglio il senso profondo di questo segno, che ci rimanda al dono ricevuto nel Battesimo:

il cieco infatti, come dicono i Padri della Chiesa, è il battezzato che emerge dalla sua notte di tenebre e si affaccia alla luce, nella quale splende il volto di Dio.

Gesù – continua il testo – “sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe»”.

Il suo è un gesto di vera ri-creazione, di estrema semplicità, di autentica prossimità, ma è anche un gesto provocatorio.


Gesù fa un gesto semplice che esprime il pieno coinvolgimento di Dio tra le pieghe dei nostri dolori. Primo fra tutti il desiderio di essere amati così come siamo e difesi nelle nostre fragilità. Un desiderio negato a quest’uomo persino dai genitori, evasivi nelle risposte circa la guarigione del figlio, segno della loro resa ad un’istituzione religiosa incrostata di apparenze ed inficiata dall’arroganza e dalla presunzione.


Gesù fa un gesto di prossimità che esprime comunicazione, vicinanza, reciprocità, relazione. In questo suo tocco di compassione amorevole non c’è alcun timore di essere etichettato, emarginato, disprezzato dall’ambiente ebraico. I genitori invece, senza tergiversare, per paura forse, avevano fatto un passo indietro. Gesù no! Anzi, prevenendo il bisogno dell’altro, per amore, ha subito fatto un passo avanti. La carità – scriverà più tardi l’Apostolo Paolo - “non cerca il suo interesse, …tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13, 5-6).


Gesù fa un gesto provocatorio che esprime libertà e grida una denuncia. Se per gli ebrei osservanti fare del fango era un’azione proibita in giorno di sabato, per Lui ogni giorno è buono per amare e salvare, oltre ogni formalismo paralizzante, al di là di qualsiasi legge che ingessa e trattiene la carità. Anzi, il Sabato, la festa è tanto più festa se si fa festa per l’uomo guarito, per il peccatore perdonato, per il perduto ritrovato, per lo scartato riaccolto. La festa di Dio è il nostro ritorno nella sua casa, dove possiamo respirare la sua paternità e sentirci figli amati.


Dal gesto di Gesù scaturisce per noi un impegno: toccare l’altro.

Ma che vuol dire toccare l’altro?

“Toccare l’altro è un movimento di compassione;

toccare l’altro è parlargli silenziosamente;

toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;

toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”.

 
 
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  • 17 mar 2023

Dal Vangelo secondo Luca

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.

Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo".

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore".

Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Quand'è che il narcisismo biascica false preghiere?

Questo capita nella parabola e nella vita quando ci presentiamo al Signore “confidando di essere giusti”, presumendo con fiera arroganza d’essere a posto, ritti davanti a Lui, imponenti e maestosi come un cedro del Libano. Fino a dire ‘devozione’ quel biascicare tra sé ostentando la propria apparente integrità in un monologo triste che nulla ha a che fare con la preghiera, anzi la soffoca fino a spegnerla del tutto. E il fariseo, nel farlo, notate che sta pure in piedi, quasi a voler sembrare alla pari con Dio. E parla, parla, dice tante parole, sfoggiando i suoi meriti con tono spavaldo. Parole che però sembrano diventare tappi alle orecchie, alle sue orecchie, rendendolo sordo all’ascolto di Dio e insonorizzato alla voce degli altri. È lì chiuso, avvitato, sprangato nel suo mondo infestato d’erbacce: ortiche infestanti cresciute sull’ipocrisia deposta nel cuore.


La Legge diceva: digiuna nel giorno dell’espiazione (Lv 16,29-31). Ma il fariseo che fa? Digiuna di più, “due volta a settimana”. Perché il suo motto è: fare di più per sentirsi migliore!

Così per la decima. La legge imponeva al venditore di pagarla. Lui, il fariseo integerrimo, fa di più e la paga anche sulle cose che compra.

Sul “di più” ha eretto una torre, quella dell’orgoglio borioso e sprezzante. E dall’alto, dal “di più”, si sente e si proclama migliore: “non sono come gli altri, e neppure come questo pubblicano”, io sono l’emblema del più.

Di contro, in fondo al tempio, fermo, a distanza dalla linea del sacro, il pubblicano.

A testa bassa, occupa il posto di chi si sente lontano da Dio. Guarda a terra, alla sua bassezza infinita intrisa di umiliazione e si batte il petto tra emozione e pentimento. Di lui il fariseo ha spifferato ogni peccato: è un ladro, un ingiusto e un adultero. Ai suoi occhi è l’emblema del “meno”, anzi del peggio, malvisto da tutti.


Eppure quest’uomo di fango che piange miseria e a mani vuote grida misericordia, a differenza dell’altro, torna a casa giustificato perché è così che Dio ci vuole: maturi nella consapevolezza d’essere miseria raggiunta dalla misericordia e non pavoni che fanno la ruota con superbia davanti a Lui in cerca di applausi, riconoscimenti e laute ricompense.

Stiamo dunque a cuore nudo davanti a Lui. Umilmente. Nella verità di noi stessi. E torneremo a casa perdonati.

 
 

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