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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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VENERDÌ SANTO


Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 19,25-30

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.


 

Della passione secondo Giovanni ho qui riportato solo i versetti relativi alla morte di Gesù. Oggi, durante l’azione liturgica del venerdì santo, avremo modo di ascoltarla per intero, fino ad accompagnare il nobile gesto di Giuseppe d’Arimatèa che insieme a Nicodemo deporrà il corpo di Gesù nel sepolcro, avvolgendolo “in teli di lino insieme con oli aromatici” (Gv 19,40).

Sì, ci sarà un corpo da ungere e da onorare, ma è quello del Signore, il Vivente. Lo faremo dunque con una certezza pregna di speranza che – spero – ci abiti in cuore sempre, soprattutto nei nostri “venerdì” di dolore e di morte: presto vedremo “la pietra rotolata via dal sepolcro” e correremo ad annunciare la risurrezione di Gesù.

Gesù è sul Calvario, immolato. Sa che “ormai tutto è compiuto” e per adempiere la Scrittura dice: “Ho sete”, e sembra stia traendo dalle perle dei salmi due versetti di rara drammatica bellezza: «Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal. 42).


Come cerva tormentata dall’arsura, Gesù ha sete del Padre e ha sete di noi. Ha sete del Padre, per l’amore eterno che avvolge la Trinità e che, nello Spirito, perennemente zampilla. Ha sete di noi, per il desiderio di vederci tornare alla fonte della vita, alle sorgenti della salvezza, che troveremo solo lì nella feritoia del suo cuore trafitto da cui sgorgherà sangue e acqua. La sua sete è zelo che consuma ed è decisa volontà di bere fino all’ultima goccia il calice del Padre per darci vita piena.


Dicendo “Ho sete”, Gesù dunque assume e dà voce alla nostra sete e, al contempo, ci attira a sé per colmare il bisogno di salvezza che giace latente nel cuore.

Capisci allora che Gesù ha sete di te, ha sete della tua fede e, come diceva un sacerdote e poeta portoghese, “ha sete della sete che tu puoi avere di Dio, della mancanza di verità che ti abita, di un desiderio di salvezza che sussista in te, anche se è un desiderio occulto o sepolto da ferite e macerie. Gesù ha sete di darti a bere il suo amore” (J. T. Mendonça).

Ed è questa la grande speranza che germoglia ai piedi della croce, quando tutto sembra apparentemente finito e Lui definitivamente sconfitto.

La tua sete, la tua fede è già annuncio della Sua risurrezione.


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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo


GIOVEDÌ SANTO

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 13,1-15

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto.

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

 

Giovedì santo: Messa “In coena Domini”. Così indica la liturgia. Stranamente però ci propone il Vangelo di Giovanni, l’unico evangelista a non raccontare l’istituzione dell’Eucaristia, al posto della quale inserisce la lavanda dei piedi.

Perché l’evangelista Giovanni fa questa scelta e così anche la liturgia?

Si vuole dare un messaggio: Eucaristia e lavanda dei piedi sono così strettamente intrecciate che l’una senza l’altra non si comprende e non si vive pienamente. Come dire: stai veramente a mensa con il Signore se stai anche ai piedi dei tuoi fratelli e viceversa. C’è il corpo e il sangue di Cristo nell’Eucaristia e c’è il corpo e il sangue di Cristo nell’altro, si chiami Pietro, Giovanni ...o addirittura Giuda. Sì, anche Giuda, il che vuol dire: amico o traditore che sia, sempre corpo e sangue di Cristo è!

Dunque, mai Eucaristia senza carità e mai carità senza Eucaristia.

Questa carità ha forme e colori ben precisi e ci lascia intravvedere la bellezza di Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi da ‘servo’ e si è inginocchiato dinanzi alla nostra umanità facendosi ‘schiavo’. Altro che trono, che regno, che dominio, come le folle e persino i discepoli desideravano e come in fondo anche noi sotto sotto vorremmo!

Prima dunque di arrivare all’altare e tendere la mano per ricevere l’Eucaristia, dovremmo visualizzare i sette fotogrammi della lavanda dei piedi e chiederci se davvero vogliamo vivere pienamente in comunione con Lui, nel modo che ci ha indicato: “Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”.

Ed ecco l’esempio:

  • “si alzò da tavola”: vai incontro all’altro, sempre, tu per primo. Non aspettare che ti cerchino, ti chiamino, ti chiedano;

  • “depose le vesti”: Gesù depone la sua stessa vita, rimane nudo come sulla croce. È la nudità dell’amore. Assumi anche tu la trasparenza schietta, la nudità della comunione e deponi nella terra dell’umiltà le maschere subdole dell’orgoglio e del tornaconto. Svestiti di te stesso!

  • prese un telo”: Il telo, che è insieme grembiule e asciugatoio, diventa la veste di Gesù ed è quella del servitore. Tu sei disposto/a a indossarla sempre, senza cambiar d’abito quando più ti conviene?

  • "se lo cinse alla vita” - La nudità di Gesù è rivestita di servizio, cioè del farsi tutto a tutti (cfr. 1Cor 9,22), come aveva ben intuito Basilio il Grande: “Non bisogna che alcuno sia padrone di se stesso, ma in ogni cosa deve sentire e deve agire come consegnato da Dio al servizio dei fratelli, che sono con lui un’anima sola”.

  • "versò l’acqua nel catino": acqua che diventa sporca, catino che raccoglie la polvere di tutti e di certo non profuma di pulito. «Se dovessi scegliere una reliquia dell’Ultima cena, diceva Madeleine Delbrêl, prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca». Che diventi anche per te “reliquia” e non rifiuto e rigetto dell’altro nel momento in cui ti mette tra le mani la sua “polvere” e i suoi “umori”.

  • cominciò a lavare i piedi dei discepoli”. Pensate a questo “cominciò”: Gesù ha iniziato, ora tocca a noi continuare.

  • "e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto" - Noi amati fino alla fine, lavati da Gesù, ora siamo asciugati dal suo telo e rivestiti del suo stesso mandato: servire. E notate: il Vangelo non dice che a un certo punto Gesù abbia tolto il grembiule. No, notifica soltanto che "riprese le sue vesti". Come a dire: io sto tra voi come servo, per sempre. Così voi, siatelo per sempre!

E come per l'Eucaristia, potremmo aggiungere: “Fate questo in memoria di me”.

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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo

Dal Vangelo secondo Matteo

Mt 26,14-25


In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d'argento. Da quel momento cercava l'occasione propizia per consegnare Gesù.

Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città, da un tale, e ditegli: "Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli"». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l'hai detto».

 

“Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?” – L’evangelista Matteo scoperchia esplicitamente l’infamia di Giuda: qui è stato lui a farsi avanti. L’evangelista Marco invece aveva lasciato intendere che fossero stati i sacerdoti, di loro iniziativa, a promettere soldi in cambio della cattura di Gesù.

L’avidità ha inghiottito Giuda e l’ipocrisia ha fatto il resto, al punto da indurlo a inscenare una farsa indegna dicendo: “Sono forse io quello che ti tradirà?”.

Vero è che Giuda, nonostante tutto, è stato uno strumento all’interno di un più grande disegno di salvezza, ma resta l’amaro delle trenta monete che tintinnano nella sua coscienza lacerata poi dal rimorso. Quel tintinnio può far male e può far rabbia, ma andiamo oltre e facciamoci provocare dalla domanda di Giuda perché, in fondo, è preziosa per il nostro cammino di fede.

«Sono forse io, Signore?»: chiediamocelo dunque anche noi, ma in verità, mentre raccogliamo da terra i cocci della nostra fede frantumata che si trascina con fiacchezza tra le pieghe dell’anima. Una fede che, mentendo anche a noi stessi, abbiamo barattato con l’effimero e con le convenienze di questo mondo per sfuggire alle fatiche della nostra vocazione cristiana, alla coerenza del Vangelo e alle sfide della persecuzione, negando la bellezza, la forza e la necessità di una testimonianza scomoda ed esigente.

«Sono io, Signore!»: forse sarà la nostra tacita risposta, balbettata in un attimo di verità e ripescata dalla coscienza quando finalmente ci rendiamo conto che è venuto meno l’entusiasmo e lo zelo per il regno. Lì comprendiamo che abbiamo finito per guardare “la nostra croce” solo da lontano, senza lasciarci coinvolgere e trasformare dalla sua fecondità. Da lontano, perché ai nostri occhi ci è apparsa come un ramo secco, duro da portare e pesante da sopportare.

«Sono io, Signore!»: può diventare una dolorosa consapevolezza che ci libera e ci aiuta a ricominciare. Alternative diverse, scuse, alibi sono fuori discussione: non c’è fuga che possa darci pace, come ci ricorda Giuda, nostro fratello. E non serve neanche leccarsi le ferite, sentirsi vittime di se stessi, incompresi, fraintesi: questo sentire aumenta solo il ritardo verso il raggiungimento della meta. Talvolta anzi la impedisce del tutto.

Che fare, allora?

Bisogna stare lì, “a tavola con i Dodici”, reclinando il capo sul petto di Gesù, in intimità con Lui, per essere raggiunti e toccati dalla sua follia d’amore, offrendo con il suo il nostro corpo perché diventi pane spezzato, vita donata.

A mensa, nel fuoco della comunione che brucia le scorie del nostro egoismo, viviamo infatti la nostra Pasqua e ci prepariamo quotidianamente a seguire Gesù-Agnello immolato, il Vivente, dovunque egli vada, sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi.

Così finalmente staremo lì per scelta, senza scappare, tradire o subire, perché avremo capito che bisogna amare fino alla fine. Con dignità e senza rimpianti.


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