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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO

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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 16,23b-28


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

«In verità, in verità io vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà.

Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena.

Queste cose ve le ho dette in modo velato, ma viene l'ora in cui non vi parlerò più in modo velato e apertamente vi parlerò del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome e non vi dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso infatti vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio.

Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre».

 

“Chiedete e otterrete”: quante volte lo abbiamo fatto, anche con insistenza, e non abbiamo ottenuto nulla? Ci sembra dunque che, almeno in questo, dobbiamo smentire Gesù facendogli l’elenco di tutte le preghiere andate a vuoto. Anzi, lamentandoci per essere rimasti inascoltati, delusi.

A primo acchito, questa sembra essere l’evidenza: una promessa tradita!


Gesù però non vende come noi false speranze: ciò che dice è sempre verità.

Cos’è che allora s’inceppa tra il chiedere e l’ottenere? Qual è il tassello mancante?

È il credere e l’amare, come ribadisce Gesù quando assicura i discepoli che saranno esauditi se si rivolgeranno al Padre nel suo nome: sarete esauditi “perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio”.


E qui c’è la crepa: non otteniamo ciò che chiediamo perché non c’è un’intesa perfetta con Lui nell’amore e nella fede.

L’intesa si fonda e matura quando ami il Signore coltivando nel cuore questa certezza: “Gesù Cristo mi ama, mi ha amato per primo, ha dato la sua vita per salvarmi, e adesso è vivo al mio fianco ogni giorno, per illuminarmi, per rafforzarmi, per liberarmi”.


Noi sì preghiamo ma, al contempo, continuiamo ad avere “uno sguardo incredulo, negativo e senza speranza”, come dice Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (n. 282). Sì preghiamo, ma non ci fidiamo di Lui, al punto da non vedere e non capire che Dio non solo ci esaudisce, ma ci anticipa nei nostri bisogni.


  • L’intesa è credere che Lui più di noi sappia di cosa abbiamo veramente bisogno, a suo modo e suo tempo.


  • L’intesa è credere che ciò che abbiamo sotto i nostri occhi, ciò che viviamo è la risposta di Dio alla più autentica preghiera, quella di Gesù: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te. Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36).


È un mistero grande! Ti ci addentri ogni giorno, eppure ti manca il fiato perché quando la strada è in salita ti sembra che Dio non ti stia aprendo il cammino. Ma Lui è lì, come lo era accanto al Figlio sulla croce, nell’abisso del più crudo silenzio.

Non è forse lì, sulla croce, che si è compiuta la salvezza?

Così sarà anche per noi, se ci fidiamo, se crediamo che Dio trae il bene anche dal male, con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Insomma, se quest’intesa con Lui non si spezza sotto il peso della nostra incredulità che c’impedisce di vedere in mezzo agli apparenti fallimenti la fecondità invisibile ma efficace della sua grazia.


“Facile a dirsi!” – penserete.

Ecco perché dopo la Pasqua c’è la Pentecoste: lo Spirito, che “viene in aiuto alla nostra debolezza” (Rm 8,26) farà questo in noi, liberandoci dalla pretesa di calcolare, di controllare tutto, di considerare 'bene' solo ciò che noi 'vediamo bene'. Sarà Lui a illuminarci, orientarci, spingerci dove Dio desidera.


Ecco l’intesa: non “voglio vederci chiaro”, ma “voglio crederci”!

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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo

Aggiornamento: 27 mag 2022


Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 16,20-23a


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:

«In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.

La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla».

 

Già ieri vi accennavo che Gesù prospetta ai suoi discepoli le due reazioni contrapposte che a breve susciterà la sua passione e morte. Da un lato, quanti si era schierati contro di Lui, gioiranno per la sua fine: “il mondo si rallegrerà”, dice Gesù; dall’altro, i discepoli che invece saranno nel lutto e nel pianto: “Voi piangerete, gemerete, sarete nella tristezza”.

Questo loro dolore però, come vi dicevo, è simile al travaglio di una partoriente: quando viene l’ora, ecco le doglie, ed è tempo di afflizione; ma è un tempo relativamente breve che, dinanzi alla gioia per la nascita del proprio figlio, finisce per non essere più ricordato. Resta solo l’infinita dolcezza di essere madri e la fierezza di avere una discendenza.


In questa similitudine della partoriente Gesù usa un termine emblematico per dire che la donna quando partorisce è nel dolore. Specificatamente si esprime così: “è nell’afflizione”. Questo vocabolo, dicono gli esegeti, allude sì alla tribolazione, ma a quella tribolazione che precede l’intervento di Dio, sempre. Un intervento che risolve in modo definitivo ciò che causa sofferenza.


Questo dettaglio è bellissimo: custoditelo nel cuore perché è questo il senso stesso della morte e della risurrezione di Gesù, ma anche il senso delle nostre afflizioni quotidiane. La sua morte (e la nostra), come le doglie del parto, dicono dolore, ma come la vita che esce dal grembo materno spazza via definitivamente il ricordo stesso del travaglio, così la risurrezione di Cristo (e la nostra) trionfa sul dolore e sulla morte.


La gioia a cui dunque siamo chiamati è senza fine e nessuno può togliercela perché è un dono irrevocabile del Signore. Capiamo quanto sia diversa, anzi diametralmente opposta alla gioia effimera che il mondo allucinato promette e mai mantiene!


Ecco perché ancora una volta ribadisco: ma che importa se il mondo si rallegrerà, anzi se farà passare anche noi attraverso il passaggio obbligato della croce! Ben venga: noi sappiamo e crediamo che la meta è un’altra. La meta è la risurrezione, la gloria, la gioia, la pace vera.


Ci sono e ci saranno ancora ‘perdite’ per cui piangere nella vita, e continueremo a morire con Cristo ogni volta che saremo nell’afflizione. Ma non sarà “un vuoto a perdere”, un peso inutile di cui non ci si potrà disfare. Al contrario: quel peso stesso ci preannuncia e si fa memoria di quanto il Risorto stia già facendo per noi, qui nel tempo, e quanto per noi ha già preparato, in gioia e pienezza, quando, svoltato l’angolo di questa vita, se ne affaccerà un’altra, definitiva, diversa e infinitamente più bella.


Riempite, vi prego, le vostre giornate di questa chiara luce pasquale!



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  • Immagine del redattoreComunità dell'Eremo

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 16,16-20


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete».

Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: «Che cos’è questo che ci dice: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”, e: “Io me ne vado al Padre”?». Dicevano perciò: «Che cos’è questo “un poco”, di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire».

Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «State indagando tra voi perché ho detto: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”? In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia».

 

Mi ha sempre stupito che in questo suo colloquio d’addio con i discepoli prima della passione, Gesù non accenni minimamente al suo dolore, ma sia interamente proteso a rincuorare e rassicurare quel grappolo di uomini che gli stanno intorno e che hanno intimamente condiviso con Lui la missione che presto si compirà quando dalla croce attirerà tutti a sé.


Anche questo è un tratto finissimo che ci rivela qualcosa del suo cuore.

Dimentico di sé, Gesù ha occhi e cuore solo per gli altri, che conosce intimamente. E pur avendo il sacrosanto diritto di esternare il proprio patire, sceglie di andare oltre per consolare e confermare.

Chiamare tutto questo ‘gratuità’ è ancora troppo poco. È piuttosto lo stile e il linguaggio dell’amore che matura nella compassione e si fa tenerezza.


Nei momenti del dubbio, dell’oscurità, persino nei giorni in cui ci sembra che Dio taccia, ricordiamoci di questo tratto finissimo del Cuore di Cristo, perennemente piegato sulla nostra umanità per sfrondare ogni tristezza e infonderci fiducia. Fiducia in Lui e nella potenza della sua morte e risurrezione.


Che importa allora se il mondo si rallegrerà, anzi se farà passare anche noi attraverso il passaggio obbligato della croce! Ben venga: noi sappiamo e crediamo che la meta è un’altra. La meta è la gloria. E noi, scegliendo di donare la vita piuttosto che possederla, entrando in questo mistero con fede e fiducia, pur patendo con Cristo, non facciamo altro che “partorire” e generare amore, come dirà Lui stesso al v. 21 di questo capitolo: “La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo”.


Ed è proprio così che, entrando ed attraversando il travaglio di un parto doloroso, anche la nostra tristezza si cambierà in gioia.

E saremo madri.

E avremo una discendenza.

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