Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,11-18
In quel tempo, Gesù disse:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Sulla tomba di un cristiano del II secolo, di nome Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”.
Questa è la nostra fede: noi apparteniamo a Cristo, Lui ci conosce, ci raggiunge per primo e ci avvolge di misericordia con il suo sguardo “buono”. Per amore.
Noi, dinanzi ai suoi occhi grandi, non siamo una folla anonima, ma unici, con un volto e un cuore, una storia e un valore. E gli siamo così cari che - buon pastore! - non esita a dare la vita per noi.
Dice Papa Francesco: «Ognuno di noi può dire: Gesù mi conosce! È vero, è così: Lui ci conosce come nessun altro. Solo Lui sa che cosa c’è nel nostro cuore, le intenzioni, i sentimenti più nascosti. Gesù conosce i nostri pregi e i nostri difetti, ed è sempre pronto a prendersi cura di noi, per sanare le piaghe dei nostri errori con l’abbondanza della sua misericordia. Gesù si preoccupa delle sue pecore, le raduna, fascia quella ferita, cura quella malata. Gesù Buon Pastore difende, conosce, e soprattutto ama le sue pecore. E per questo dà la vita per loro (cfr Gv 10,15). L’amore per le pecore, cioè per ognuno di noi, lo porta a morire sulla croce, perché questa è la volontà del Padre, che nessuno vada perduto».
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,1-10
In quel tempo, disse Gesù: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita a l'abbiano in abbondanza».
A chi si sta rivolgendo Gesù, chi sono i suoi interlocutori?
Pare siano alcuni farisei “che si trovavano con lui”, a cui Gesù aveva detto che il loro presumere di “vedere” – vedere bene e vedere giusto! – li aveva resi ciechi, increduli: “voi dite: «Noi ci vediamo», e il peccato vostro rimane” (Gv 9,41).
Di cosa è fatta la loro incredulità? Proviamo a capire la metafora dell’ovile.
A quel tempo in Palestina i piccoli proprietari delle pecore, non potendo tenere in casa, nel villaggio, il loro gregge, lo affidavano a un guardiano, un salariato che le custodiva in un ovile poco distante dal centro abitato. Ogni tanto, durante la giornata, il proprietario-pastore andava all’ovile per far uscire le pecore dal recinto e condurle al pascolo.
Da queste consuetudini locali ecco la metafora riferita da Gesù: c’è il pastore delle pecore che “entra nel recinto dalla porta” perché le pecore gli appartengono e c’è un guardiano che le accudisce e che, all’arrivo del pastore, apre la porta del recinto per farlo entrare. Le pecore, che riconoscono la voce del pastore quando chiama ciascuna per nome, lo seguono fuori dall’ovile fin quando non giungono al pascolo. Ci sono infine quelli che salgono “da un’altra parte”: i ladri-briganti, che per entrare devono intrufolarsi abusivamente scavalcando il recinto.
Gesù, vi dicevo, si identifica con la porta delle pecore: è Lui l’unico varco legittimo attraverso cui passa il pastore. Al contempo, però Lui si identifica anche nella figura del pastore “buono” che dà la vita per le sue pecore. Dunque, pastore e porta.
L’intreccio di queste due similitudini potrebbe essere scaturito da un’altra usanza orientale: il pastore, per evitare razzie notturne, dormiva infatti davanti all’ovile, nel vano della porta. Le pecore dunque stavano al sicuro perché nessuno poteva rapirle senza svegliarlo.
Chiediamoci: chi sono i ladri e i briganti? Coloro che pretendono di guidare il popolo di Dio senza passare attraverso la mediazione di Gesù.
Avviciniamo ora questa metafora a noi: nell’ovile, che è la Chiesa, noi siamo pecore e siamo pastori.
Come pecore, riconosciamo nella Parola che ascoltiamo ogni giorno e in coloro che nella Chiesa ci guidano, la voce stessa di Dio che ci chiama alla comunione con lui. Infatti, attraverso coloro che nella Chiesa rendono presente Gesù-pastore, è lui stesso che ci guida e ci nutre camminando sempre davanti a noi per farci strada e condurci verso la salvezza. Non dimentichiamolo, perché è questo che professiamo quando diciamo: “Credo nella Chiesa”.
Come pastori, guardando a Cristo, abbiamo la responsabilità di custodire e condurre il piccolo gregge che il Signore ci ha affidato – la mia famiglia, la mia comunità, ma anche gli amici, direi persino i perfetti sconosciuti che, incrociandoci, devono poterci riconoscere come “cristiani”; e poi soprattutto i poveri, che non hanno riferimenti, sicurezze; infine – ma credo abbiano un posto speciale nel cuore di Dio – le “pecore perdute”, per le quali non dobbiamo esitare ad uscire fuori dalle nostre “sacrestie” per andare a cercarle.
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30
In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Oggi è la festa di Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia e compatrona d’Europa. Mi sembra quanto mai necessario, proprio oggi, ricordare questa donna – una mistica! – analfabeta, che divenne consigliera di principi e papi, anzi “rude ammonitrice di Pontefici e di re”, come scrisse un suo biografo.
Intuirete certamente che in questo amarissimo frangente della nostra storia abbiamo bisogno di attingere alla parresia di questa donna per saper dire con affetto e con rispetto "parole di fuoco", fuoco di Spirito Santo, a coloro a cui è stato affidato il timone della storia. Un timone affidato non certo per distruggere ma per custodire, non per dominare ma per servire.
Anzi forse, più che di parole da dire, abbiamo bisogno di una convinzione da sostenere e di una testimonianza da dare.
Il Vangelo di oggi ci aiuta a focalizzare il senso stesso del nostro essere e agire non solo come cristiani ma anche come cittadini del mondo. E sottolineo “del mondo” perché in troppi luoghi di questa nostra amata terra i confini tracciati dagli uomini, talora in modo improvvido, e poi ripetutamente minacciati, stanno innescando una serie infinita di conflitti.
Non possiamo più tacere né chiuderci negli spazi angusti dei nostri interessi per coltivare soltanto l’orto di casa. Se un futuro potrà ancora esserci, dipenderà dalla nostra ferma volontà di tessere i fili delicatissimi della pace, cercando attraverso la via buona del Vangelo di raggiungere l’unica meta possibile: la convivenza fraterna tra popoli diversi e uomini uguali.
Dio – dice oggi Gesù nella sua preghiera di lode – è “Signore del cielo e della terra”. Non di una sola nazione, non di una sola fetta di cristiani, non di una cerchia ristretta di uomini da lui benedetti e abbracciati in alleanza perenne. Spogliamoci dunque dalla pretesa che Dio sia dalla nostra parte e rivestiamoci della tunica indivisa di Cristo ricorrendo alla sapienza che scaturisce dalla piccolezza evangelica.
Sapienti e dotti di questo mondo – lo stiamo vedendo – hanno fallito!
Dall’alto delle loro pretese, quasi fossero i supplenti di Dio, hanno sparso la zizzania della confusione facendo germogliare solo odio e violenza.
Agli oppressi di questo nostro tempo invece, a chi ormai è piegato dalla stanchezza, prosciugato dal dolore e derubato della giustizia, Gesù ha ancora una parola da dire, una consolazione da dare: “Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me”.
Certo, una linea sottilissima sembra separare questo invito del Signore dalla legittima necessità di vivere e sopravvivere con dignità, ma non è così. Anzi, tutt’altro! Gesù non parla né di vincitori né di vinti e non ammette né gli uni né gli altri perché la logica del Vangelo è ben altra e non si riduce certo ad un manuale di guerra o alla semplice firma di un armistizio precario.
“Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me” è piuttosto un invito a sperare quando non vediamo più luce, un ristoro quando siamo sfiniti, un sollievo quando gli altri, tra indifferenza e sopruso, c’impongono un giogo insopportabile.
Con un impegno concreto però, che è affidato alle nostre mani e al nostro cuore: la speranza va concretamente alimentata, il ristoro dato, il sollievo offerto, il sopruso denunciato, l’indifferenza bandita.
“Venite a me, prendete il mio giogo, imparate da me” – ormai è chiaro – è una dichiarazione di alleanza e di missione che Dio sugella con i piccoli del Vangelo che si affidano a Lui. E Lui, che è fedele sempre, rovescerà i potenti dai troni e innalzerà gli umili. Lo ha fatto e lo farà ancora.
Anche i dotti e i sapienti, per quanto forti si sentano, non sono eterni.
Ridestiamoci dunque a ciò che siamo davvero: figli di Dio e fratelli tra noi!